La presentazione del progetto per il Grande MAXXI, questa mattina a Roma, è l’occasione per una riflessione sulla storia di questo luogo e dell’edificio che lo ospita: facciamo quindi un passo indietro fino al 1997, quando si decide di dar vita a un polo nazionale dedicato all’arte a all’architettura contemporanee.

L’idea di fondo, forse non del tutto dichiarata e comunque mai portata a compimento è quella di creare una sorta di staffetta con la Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, col passaggio dal XX al XXI secolo a marcare una improbabile discontinuità tra moderno e contemporaneo (e nonostante il fatto che la Galleria Nazionale non abbia mai interrotto la sua missione di occuparsi dell’arte del presente – cosa che fa dal 1883 – e che allora quella che oggi chiamiamo arte moderna fosse, a tutti gli effetti, contemporanea).

Non a caso i destini delle due istituzioni – quella che stava per nascere e quella con oltre cento anni di storia – per un breve periodo viaggiano in parallelo: al Flaminio, la cessione da parte del Ministero della Difesa a quello dei Beni Culturali della ex caserma Montello di Via Guido Reni permette di avviare un concorso internazionale di progettazione in due fasi. A Valle Giulia, la storia della sfortunata Ala Cosenza, quasi incastonata nella collina alle spalle dell’edificio di Cesare Bazzani è l’occasione per un altro concorso.

Nel 1998 Zaha Hadid vince quello per il Centro per le arti contemporanee; nel luglio dell’anno successivo l’istituzione nasce ufficialmente e per un breve periodo quello che oggi chiamiamo MAXXI si chiama, per volontà del curatore Paolo Colombo, al lavoro con la prima mostra ancora prima dell’avvio del cantiere, semplicemente il Centro.

Spostandoci di poche centinaia di metri, alla Galleria Nazionale sono Diener & Diener a aggiudicarsi il concorso per l’ampliamento. I lavori partiranno nel 2003 ma si fermeranno quasi subito e non saranno mai ripresi. È da questo momento che i due progetti prendono due strade differenti.

Il progetto di Zaha Hadid e Patrik Schumacher è più fortunato, ma non senza qualche prezzo da pagare. Il programma del concorso prevede un insieme articolato e dettagliato di spazi e funzioni, che comprende tra l’altro un museo di architettura con una sua specifica identità funzionale. Il progetto vincitore distribuisce le funzioni nello spazio del lotto creando una sorta di campus costituito da un edificio principale, da quattro edifici secondari e dal recupero di due degli edifici esistenti della ex caserma.
Dopo la fase del concorso di idee, il progetto viene sviluppato e arriva a un livello di approfondimento tale da consentire di quantificarne il costo. Quando questo viene confrontato con la disponibilità di risorse del committente, i fondi disponibili non sono sufficienti: non è possibile realizzare il museo nella sua interezza e così come è stato concepito.

È un momento di estrema delicatezza, un punto al quale l’insufficienza dei fondi potrebbe diventare la causa – se non l’alibi – per un fermo a tempo indeterminato: il rischio concreto è la morte del progetto. Nasce allora l’idea di individuare una parte del progetto, perfettamente autonoma e compiuta, in grado di essere costruita e aperta al pubblico senza dover attendere la realizzazione completa dell’intervento. È la soluzione all’impasse: questa unità funzionale è individuata nell’edificio che vediamo (e visitiamo) oggi, al quale vengono temporaneamente sottratti i quattro edifici minori; quando possibile le funzioni vengono ricollocate nel corpo principale, che conterrà sia il museo d’arte che quello di architettura che le esposizioni temporanee. L’immagine che abbiamo oggi del MAXXI è già storicizzata, ma in realtà ciò che stiamo guardando è un’opera incompiuta.

L’impatto di questa mutilazione reversibile lascia alcune tracce. Alcune aree funzionali hanno dovuto essere riprogettate (i sotterranei, che prima si sviluppavano in continuità sotto i cinque edifici di nuova costruzione, nella versione definitiva si contraggono per ridurne l’impatto sui costi), altri elementi pensati come ponti di collegamento tra i corpi di fabbrica perdono la loro funzione e diventano degli affacci su un vuoto che si spera di poter presto colmare.

Il tratto più interessante della conferenza stampa di oggi è proprio questo: siamo arrivati al momento in cui il MAXXI mette in gioco tutte le sue carte e pensa a un futuro fatto non solo di nuove iniziative ma anche della possibilità concreta di tornare a lasciare un segno sul territorio, riprendendo a trasformarlo fisicamente e non solo culturalmente e socialmente. Ma ora che ha di nuovo la possibilità di farlo, non guarda alla possibilità di riprendere in mano, almeno in parte, il progetto incompiuto di Zaha Hadid. Guarda altrove, sia fisicamente che concettualmente.

Fisicamente, perché pensa a realizzare un nuovo edificio (che viene chiamato MAXXI Hub) e per farlo ottiene la disponibilità di un lotto aggiuntivo esterno al perimetro attuale del museo; si espande, ma non aumenta la sua densità; e così facendo si allontana dall’idea di campus del progetto originale.
Concettualmente, perché sceglie di percorrere una strada completamente nuova, facendo tabula rasa di ciò che rimane delle intenzioni progettuali del museo incompiuto e in parte andandole deliberatamente a contraddire, introducendo un nuovo asse verde lì dove andrebbero posizionati gli edifici non realizzati; e perché con un nuovo concorso internazionale di progettazione il MAXXI non sarà più solo il museo di Zaha Hadid.

E questa forse è un po’ la chiave di lettura della storia architettonica dei primi dieci anni di MAXXI. La maternità di Zaha Hadid continua a essere rivendicata con orgoglio da chi se ne occupa (anche oggi, nei materiali multimediali che accompagnano la presentazione del Grande MAXXI), ma la sensazione continua a essere quella che non sia mai compresa fino in fondo, e in una certa misura, non sia mai stata accettata del tutto, come in un complesso di Edipo (o di Elettra) irrisolti.

Non si tratta di qualcosa di recente: la radicalità del progetto di Zaha Hadid è stata vista come scomoda, o addirittura inopportuna prima ancora che l’edificio fosse costruito. Si narra di consulenti ministeriali che suggerivano di rivestire la struttura in calcestruzzo a faccia vista con un bell’intonaco, magari tinteggiato coi colori classici di Roma, una proposta fatta senza imbarazzo da qualcuno convinto di avere davvero quell’idea geniale che potesse far fare il salto di qualità al progetto. C’è chi ha pensato che tutto sommato è stato meglio che gli edifici secondari non siano mai stati realizzati, perché così c’è più spazio e il museo si vede meglio, che è qualcosa che mi fa sempre tornare alla mente quella persona che ce l’aveva col battistero di San Giovanni perché impallava la vista della facciata di Santa Maria del Fiore, e sosteneva che sarebbe stato meglio demolirlo.

Meno boutade e più fatti concreti sono invece quelli che hanno portato alla scelta di mettere mano all’edificio che oggi ospita ristorante, biblioteca, spazi di servizio e Extra MAXXI (una volta indiviuati dei finanziamenti aggiuntivi, visto che non era compreso tra i lavori del primo lotto) con un progetto di ristrutturazione sviluppato in house anziché seguendo quello originale di Zaha Hadid; forse un modo per velocizzare le procedure, forse un modo per risparmiare sulla parcella della progettista, ma forse anche un modo per rivendicare la propria capacità di progettare da soli senza dover fare sempre ricorso alla genitrice un po’ ingombrante. A suo tempo, in casa Hadid la cosa non provocò particolari scossoni; io restai parecchio impressionato dal fair play.

Va anche detto che in dieci anni il MAXXI non è rimasto uguale a sé stesso. Diversi curatori, diversi allestimenti hanno interpretato gli spazi e le potenzialità, con fortune differenti. Opere che sembrano pensate apposta per lo spazio in cui sono collocate (Sol Lewitt, Anish Kapoor) vivono nel museo per alcuni anni, poi scompaiono. Alcune delle soluzioni progettuali proprie del progetto Hadid sono di fatto rifiutate, senza particolare clamore. C’era una grande vetrata al piano terra che oggi è una parete bianca e cieca, ma nessuno rendere più conto. Nella grande galleria a gradoni le sottili finestre a nastro che permettevano di affacciarsi dall’interno del museo verso la piazza in basso (e dalla piazza di guardare all’interno del museo, con un effetto particolarmente suggestivo in notturna) sono state tamponate per far posto a delle scale che ora collegano tre aree a quote differenti: prima erano comunicanti attraverso una rampa laterale (e ancora lo sono), ma per qualche ragione si ritiene più opportuno che ci siano anche delle scale tradizionali, e pazienza se da dentro al museo non guardi più fuori e da fuori non sbirci più dentro. In diverse porzioni del museo i lucernari di copertura sono stati oscurati, nonostante il progetto prevedesse una molteplicità di dispositivi che permettono alle gallerie di ricevere la luce naturale, o di controllarla, o di schermarla completamente: invece no, guardi in alto, vedi la lastra di vetro di copertura, e intravedi un non meglio identificato pannello bianco che le fa da tappo, dall’esterno.

Nel 2017 alcune trasformazioni sono state più marcate e il cambiamento non è stato nascosto, ma rivendicato: con l’operazione re-evolution la caffetteria del museo e il bookshop si spostano in un ambiente più grande, uno spazio che nel programma originale era destinato alle esposizioni temporanee. Il MAXXI si apre alla città, si dice, forse perché il vero spazio urbano del museo, la piazza intitolata a Alighiero Boetti, davvero aperta non lo è. Poco importa che la vecchia caffetteria fosse prevista in una posizione più baricentrica e che le sue dimensioni fossero contenute perché era pensata come offerta alternativa – e non concorrenziale – col ristorante che si trova dall’altro lato della piazza. O che quello spazio oggi è una terra di nessuno con esposizioni temporanee ignorate dai visitatori perché al di fuori dal percorso naturale di visita. O che il bookshop fosse sì effettivamente sottodimensionato, ma solo perché l’edificio che avrebbe dovuto ospitarlo non è mai stato realizzato. Il nuovo MAXXI si evolve, cambia, e chi lo guida sottolinea la propria capacità di intervenire sugli spazi del museo con la stessa dignità o addirittura con maggiore efficacia rispetto al progettista originale. La direzione del MAXXI corregge il progetto troppo poco convenzionale dell’archistar.

Oggi il museo è all’ennesima trasformazione. Lo fa senza farsi sfuggire il treno del PNRR e ne cavalca agile i temi: sostenibilità, inclusione e innovazione. Tutto con una disinvoltura ammirevole che indica una grande sicurezza di sè: non a caso il MAXXI è una fondazione, è più di un “semplice” museo statale; quando lascia la parola all’amministratore delegato di EneI non parla con uno sponsor, ma con un partner; è capace di attrarre investimenti e sinergie e mette in campo un progetto di ampliamento e rinnovamento con risorse provenienti da soggetti differenti: perché dovrebbe tornare al proprio progetto incompiuto quando ha la possibilità di lasciare un nuovo segno con un nuovo progetto e un nuovo progettista?

Perché il MAXXI è uno dei capolavori non solo di Zaha Hadid ma della storia dell’architettura universale, risponderei io. Perché è prezioso, e a nessuno verrebbe in mente di costruire una sagrestia accanto alla Sagrada Familia invece di completare l’architettura di Gaudí . Perché Sant’Agnese in Agone sarebbe stata un’altra cosa se a portarla a termine fosse stato Borromini.
Se quella di realizzare il MAXXI per parti è stata la scelta che gli ha consentito di vedere la luce, forse la scelta di abbandonare per sempre la possibilità di completare il progetto meriterebbe più attenzione, e una più onesta dichiarazione di intenti.

O almeno un funerale, forse.

Niente di tutto questo è accaduto oggi. Ancora una volta la convinzione è quella di essere in grado di migliorare quello che è stato realizzato (ai tempi dello spostamento della caffetteria si parlò addirittura di portare a compimento l’intenzione originale di Hadid, e in quell’occasione credo che il fatto che non fosse più tra noi sia tornato utile), si parla di green, di portare il verde tra il cemento di Zaha Hadid (e allora ditelo, che avreste davvero voluto l’intonaco tinteggiato). Un po’ come una madre che conosce bene sua figlia, e per questo si sente di poter consigliare la sarta che le sta cucendo l’abito da sposa: lo migliori con un bel fiocco.

Quando si ha questa sicurezza di sè, si rischia di perdere il senso delle cose. E così si finisce col proiettare in conferenza stampa un’animazione che mostra una copertura fotovoltaica prendere via via il posto di quella vetrata che esiste oggi e domani chissà. “Coperture fotovoltaiche di nuova generazione,” recita la didascalia. Brividi scorrono lungo la schiena.

Senza imbarazzo, ma anche senza spiegare. Un deciso passo avanti rispetto a Hadid, che si era limitata a pensare che un museo ha una copertura trasparente per fare entrare la luce, e il MAXXI ha quella particolare copertura, con un grigliato su misura le cui lamelle sono orientate in base il percorso del Sole nel cielo di Roma, perché dall’interno si possa sempre vedere il cielo senza che la luce diretta arrivi sulle opere. Bello, ma non abbastanza green.

Sia chiaro: questa trasformazione della copertura può essere un intervento riuscito e non è sbagliato dire che può diventare un modello di intervento sull’edilizia monumentale; ma l’animazione che la presenta alla stampa non lascia prevedere nulla di buono; non si fa menzione di chi si occuperà dell’impatto della trasformazione sull’architettura (e il fatto che non si parli di un coinvolgimento di Zaha Hadid Architects fa pensare che sarà nuovamente qualcosa di gestito da progettisti interni, o locali, se non direttamente dalle aziende fornitrici della tecnologia); non si spiega come verranno conciliate le esigenze di un fotovoltaico trasparente (che chiede la luce) con quelle di un museo (che la luce la filtra), o che ne sarà di quelle lamelle così particolari che fino a oggi hanno ricoperto tutta la superficie vetrata del museo.

Nessuna ragione per essere ottimisti, visto quello che è accaduto in questi dieci anni: con questa nuova trasformazione, il MAXXI rivendica oggi l’affrancamento definitivo dalla sua progettista. Non vuole essere più il MAXXI di Zaha Hadid, sarà un’altra cosa, e di qualcun altro. Edipo, anzi Elettra, ha risolto.

Foto di apertura: il MAXXI visto da piazza Alighiero Boetti, durante l’architectural preview del museo a novembre 2009.