Dallo scorso anno le Gallerie Nazionali d’Arte Antica hanno a disposizione un nuovo spazio espositivo al piano terra di Palazzo Barberini: otto sale sono state restituite al museo e alla città di Roma dopo un complesso intervento di restauro e di adeguamento funzionale. La mostra Caravaggio e Artemisia: la sfida di Giuditta. Violenza e seduzione nella pittura tra Cinquecento e Seicento, aperta al pubblico lo scorso 26 novembre, è la seconda a essere ospitata nelle sale rinnovate. Segue di pochi mesi Tempo Barocco, con la quale erano state inaugurate nel maggio 2021.

Per sua stessa natura un edificio condiviso dal ramo cardinalizio e da quello secolare della famiglia (con una pianta a forma di H, due ingressi separati e due scaloni monumentali), Palazzo Barberini ha visto per anni coabitare il Circolo Ufficiali delle Forze Armate, che si è insediato nell’Ala sud nel 1934, e la seconda sede delle Gallerie Nazionali d’Arte Antica, che a partire dal 1953 è andata a affiancare a quella storica di Palazzo Corsini alla Lungara.

Con gli accordi del 2006 tra il Ministero della Cultura e il Ministero della Difesa il Circolo trova una nuova sede nella Villa Savorgnan di Brazzà alle spalle di Palazzo Barberini e così l’Ala sud può essere riunita alla Galleria. Ma è solo nel 2018, con la mostra Eco e Narciso, che le sale ritrovate del piano nobile vengono aperte al pubblico. L’anno successivo in quegli stessi spazi viene inaugurato il nuovo allestimento dei capolavori del ‘700 e l’Ala sud entra a far parte definitivamente del percorso di visita del museo.

L’intero impianto espositivo viene rinnovato o radicalmente ripensato, il sistema di ancoraggio delle opere, le soluzioni per l’illuminazione, i pannelli di sala e un ingegnoso ma semplice sistema di supporto delle didascalie sviluppati per questi ambienti diventano il prototipo per le fasi successive di ristrutturazione del Palazzo. Il riallestimento delle 10 sale dell’Ala nord dedicate ai capolavori del ‘600 viene completato nel dicembre 2019; quello dei capolavori del ‘500 lo segue nell’ottobre 2021.

Il trasferimento del Circolo rende disponibili anche altre due sezioni del complesso di Via delle Quattro Fontane: le sale al piano terra dell’Ala sud e l’area delle Cucine Novecentesche, che occupavano l’ambiente che ai tempi del cardinale Antonio Barberini era dimora di uno degli animali esotici allevati a Palazzo, la cosiddetta stanza del leone. Nella nuova funzione espositiva, le Cucine hanno trovato la propria vocazione nell’allestimento di piccole mostre focus, valorizzando degli spazi sorprendentemente moderni all’interno dell’edificio storico.

L’inaugurazione del nuovo spazio mostre è quindi il penultimo passo di un progetto ambizioso partito nel 2017 che vedrà il suo completamento nei prossimi mesi, quando sarà completato anche il riallestimento del piano terra dell’Ala nord.
Le sale al piano terra dell’Ala sud sono le più adatte a ospitare la programmazione di mostre temporanee del museo: la consistenza dimensionale – 750 metri quadrati complessivi – è adeguata; la disposizione degli ambienti permette un percorso di visita a senso unico privo di interferenze; gli spazi hanno un ingresso monumentale connesso direttamente col portico del Palazzo ma allo stesso tempo sono fisicamente separati dal percorso di visita principale; c’è la possibilità di inserire quegli spazi di servizio necessari a rendere il tutto fruibile dai visitatori.

Le condizioni funzionali degli ambienti, e in particolare l’assenza di un impianto di controllo delle condizioni ambientali e di illuminazione e alcune problematiche di natura strutturale rendono però necessario un intervento di riqualificazione di una certa complessità e di più lunga durata.
Si sceglie di intervenire con un progetto che si discosta dal modello già utilizzato per ristrutturare le sale dedicate alle collezioni; i requisiti richiesti dai severi standard prestazionali delle grandi esposizioni d’arte internazionali vengono trasformati in opportunità, e si introducono soluzioni innovative per un edificio seicentesco e totalmente inedite per Palazzo Barberini. Lo spazio mostre si inserisce con continuità nel progetto di rinnovamento del museo, ma lo fa con una sua peculiarità.

Si interviene sull’esistente attraverso metodologie di restauro consolidate, sia a livello strutturale che di conservazione delle superfici e delle finiture, con particolare attenzione ai solai e ai due ambienti di ingresso, il corridoio monumentale di accesso dal portico e il vestibolo di collegamento con la scala elicoidale di Borromini; allo stesso tempo si introducono dei meccanismi tecnologici ai quali è affidato il compito di rispondere efficacemente alle esigenze di controllo climatico e di illuminazione di quello che si vuole connotare come uno spazio museale contemporaneo.


Sul piano del controllo climatico, si segue la prassi consolidata di realizzare una controparete ispezionabile che consenta di alloggiare col minimo impatto visivo un impianto di trattamento dell’aria in linea con gli standard internazionali. Non si tratta di una soluzione inedita, ma è la prima volta che viene adottata a Palazzo Barberini, anche grazie al fatto che le sale del piano terra presentano un impianto decorativo decisamente meno pronunciato rispetto alle ricche sale del piano nobile.

Più innovativa è invece la soluzione adottata per l’impianto di illuminazione: un sistema di travi in fibra di carbonio progettato appositamente per questi ambienti. Si tratta di strutture leggerissime – anche visivamente – a doppia ala, irrigidite per forma, in grado di superare senza apprezzabili deformazioni luci notevoli che arrivano, nel nostro caso, fino a quasi 17 metri.

Le travi alloggiano l’intero apparato di illuminazione, sia diretta sulle opere che ambientale, con grande flessibilità d’uso; gli spazi possono contare sulla possibilità di illuminare in modo bidirezionale ogni superficie sia lungo le contro pareti che a centro sala; la geometria delle travi incornicia e valorizza i soffitti a volta permettendone la visione completa e allo stesso tempo mimetizzando la presenza, per sua natura invasiva, delle componenti illuminotecniche.


Il risultato è di grande impatto: nei nuovi spazi si riesce a cogliere in contemporanea il senso di continuità con la trasformazione che si sta compiendo nelle sale espositive canoniche del museo ma anche la ricerca di una qualità specifica propria delle sedi pensate per ospitare grandi eventi d’arte internazionali.

Tempo Barocco, la mostra inaugurale, si presenta ai visitatori con un allestimento in punta di piedi che lascia ai volumi delle sale appena ristrutturate il ruolo di protagonista, col solo contrappunto di una serie di teche raffinate quanto gli oggetti preziosi che contengono. Caravaggio e Artemisia: la sfida di Giuditta fa un passo in più e non rinuncia all’opportunità di intervenire sullo spazio con maggiore libertà, iniziando a indagare le potenzialità delle sale attraverso disposizioni non ortogonali dei pannelli espositivi che assecondano il progresso del visitatore lungo il percorso, creando anche delle piccole sorprese.


La mostra prende le mosse dai cinquant’anni dall’acquisizione della Giuditta e Oloferne di Caravaggio da parte dello Stato italiano e dai settant’anni dalla sua riscoperta da parte di Pico Cellini, uno dei massimi restauratori del Novecento. Questa occasione ha consentito alla curatrice Maria Cristina Terzaghi di realizzare la missione quasi impossibile di riunire sotto lo stesso tetto ventisei differenti versioni di un tema iconografico così particolare e fortunato prodotte tra la fine del XVI e la prima metà del XVII secolo. Una mostra che, anche per la finestra temporale, sembra essere nata apposta per Palazzo Barberini.


Il percorso di visita, suddiviso in quattro sezioni, si svolge intorno ai due temi della violenza e della seduzione; questi fanno la loro comparsa già nelle opere di Pierfrancesco Foschi, Lavinia Fontana, di Tintoretto e di un seguace di Bartholomeus Spranger alle quali è dedicata la prima sezione, Giuditta al bivio tra Maniera e Natura. È un’occasione per riflettere su come un primo allontanamento dal modello iconografico tradizionale fosse già in atto quando Caravaggio portò a compimento la sua rivoluzione nel 1599.


Con Giuditta che decapita Oloferne, un’opera che pur essendo di casa a Palazzo Barberini continua a ricevere da parte dei visitatori l’attenzione da protagonista che si riserverebbe a un prestito da qualche museo lontano, Caravaggio sceglie infatti di mettere in scena un vero e proprio omicidio, una decapitazione offerta allo spettatore in tutta la sua violenza, senza remore né mediazioni.

Troviamo la sua Giuditta al fondo della seconda sala, al termine di un potente cannocchiale visivo costruito attraverso la disposizione a spina di pesce dei pannelli che ospitano altre sei variazioni sul tema: la sinergia tra l’allestimento e le opere è particolarmente riuscita. La Giuditta di Caravaggio è anche l’unica a essere allestita su un fondo verde bosco; quelle dei suoi primi interpreti, tutte sviluppate nello stesso formato orizzontale e tutte simili per dimensione, sono circondate da campi di un rosso scuro che riverbera e amplifica il colore del sangue che ormai esce a fiotti, esibito, addirittura ostentato, dalla testa di un Oloferne ancora in lotta con la morte.


Come in molte altre opere, anche qui Caravaggio si riferisce direttamente alle rappresentazioni sacre e ai drammi teatrali. Questo è l’unico strumento che potrebbe permettere allo spettatore di conservare un minimo distacco da un’immagine che per sua natura esprime una violenza priva di pudore. Ma con gli occhi dei protagonisti moltiplicati per sette – sette sono le opere in sala – questo non è più sufficiente: quando gli sguardi dei tre protagonisti lasciano la tela e incontrano quello dell’osservatore, questo da spettatore diviene testimone.


La trasformazione del modello iconografico operata da Caravaggio ha una ripercussione immediata presso i suoi contemporanei. Questo colpisce ancora di più se si pensa che il proprietario della Giuditta, il banchiere Ottavio Costa, ne era così geloso da vietare a chiunque di trarne delle copie.
Evidentemente, Costa non era però geloso al punto da nascondere del tutto la tela alla vista suoi ospiti: i rimandi al modello caravaggesco nelle altre opere in sala sono così profondi da non poter credere che Trophime Bigot, Valentin de Boulogne, Louis Finson, Bartolomeo Mendozzi, Giuseppe Vermiglio e Filippo Vitale non siano venuti a contatto, almeno fugacemente o indirettamente, con l’originale o con sue derivazioni dirette. Una parola sussurrata all’orecchio, una fuga di notizie, una soffiata, come scrive Terzaghi.
Proprio per questo, ogni Giuditta si caratterizza per uno o più particolari che la discostano dal modello e la rendono riconoscibile, a testimonianza del fatto che quella operata da Caravaggio è solo l’inizio di una trasformazione.


Se quella di Caravaggio è la violenza vista con gli occhi di un uomo, sarà infatti Artemisia Gentileschi a calarsi completamente, anche per immedesimazione, nei panni dell’eroina biblica. A lei è intitolata la terza sezione, Artemisia Gentileschi e il teatro di Giuditta, che si apre con due opere del padre Orazio affiancate dalle due di Artemisia in prestito da Firenze – una reinterpretazione diretta dell’opera paterna – e da Napoli.
Il tempo di una tela di Biagio Manzoni, una delle novità di questa mostra, e di una di Giovanni Baglione, un attimo per riprendere fiato attraversando il vestibolo della scala elicoidale borrominiana lasciato intenzionalmente privo di opere, e troviamo altre sei opere prodotte in un breve arco di tempo da un incredibilmente moderno Johan Liss, da Bartolomeo Manfredi, Pietro Novelli, Mattia Preti e Giuseppe Vermiglio.


Due paralleli chiudono la mostra: quello con la storia di Davide e Golia, un’altra allegoria in cui virtù e astuzia vincono sulla forza bruta del tiranno che finisce senza testa, e quello con l’altro soggetto biblico incentrato sul tema della decapitazione: il martirio di Giovanni Battista.
Non a caso l’immagine di Salomé verrà spesso confusa nella raffigurazione pittorica con quella di Giuditta, in alcuni casi anche intenzionalmente, come nel caso delle due Judith di Gustav Klimt.

Quest’ultima sezione, Le virtù di Giuditta. Giuditta e Davide, Giuditta e Salomé, porta il totale delle opere in mostra arriva a sfiorare il numero di trenta. Il compito di chiudere il sipario è affidato ancora una volta a Valentin de Boulogne, con due tele in prestito da Tolosa e Madrid, al Rustichino, a Girolamo Buratti e a Cristofano Allori.

Sfida nella sfida, le Gallerie Nazionali d’Arte Antica non si lasciano intimorire da un tema potenzialmente controverso e propongono i laboratori didattici Eroi ed eroine a misura di bambino, invitando bambini e famiglie a scoprire la figura dell’eroina biblica attraverso attività mirate. È invece pensato per gli adulti il programma di visite guidate Seicento al femminile: la seduzione della forza e dell’ingegno, ponte con l’altra mostra in corso al museo, Una rivoluzione silenziosa. Plautilla Bricci pittrice e architettrice, alla Galleria Corsini fino al 19 aprile.
Una professionista del tempo barocco capace di superare nel mondo concreto i confini dei ruoli sociali incrocia così la storia dell’eroina biblica in costante equilibrio tra virtù e pericolosa seduzione.

  • Caravaggio e Artemisia: la sfida di Giuditta. Violenza e seduzione nella pittura tra Cinquecento e Seicento.
    A cura di Maria Cristina Terzaghi.

Dal 25.11.2021 al 27.03.2022 alle Gallerie Nazionali d’Arte Antica
Palazzo Barberini
Via delle Quattro Fontane 13, 00184 Roma
Dal martedì alla domenica dalle 10 alle 18. La biglietteria chiude alle 17.

Nuovo spazio mostre.
Responsabile dell’intervento: Flaminia Gennari Santori con Giuseppe Silvestri e Dario Aureli. Progetto architettonico, illuminazione e travi in fibra di carbonio: Enrico Quell con Paolo Piazza. Progetto degli impianti: Gianfranco Savini