Ho lasciato passare un po’ di tempo prima di occuparmi della mostra Tolkien. Uomo, Professore, Autore, promossa dal Ministero della Cultura e in corso alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma fino al prossimo 11 febbraio, nonostante fossi riuscito, non senza qualche difficoltà, a partecipare a una blindatissima anteprima stampa a metà novembre dello scorso anno.
Ho preferito invece attendere la conclusione del mandato della ormai ex direttrice del museo perché, a differenza di chi ha titolato Cristiana perché fai questo torto a Palma? (Fabrizia Carabelli, InsideArt), mi è stato chiaro fin da subito che quella sul creatore della Terra di Mezzo sarebbe stata una mostra alla Galleria Nazionale, ma non una della Galleria Nazionale.

Il totem della mostra alla base della scalinata della Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea a Valle Giulia, con la scultura Roma 2011 di Mauro Staccioli sullo sfondo

E non nascondo il mio dispiacere nell’aver ascoltato una persona per la quale nutro una stima praticamente infinita come Tomaso Montanari spiegare come nemmeno in Corea del Nord un grande museo di Stato farebbe una mostra sull’autore preferito del capo, non cogliendo, o non volendo cogliere così quello che agli addetti ai lavori dovrebbe apparire palese: non è la Galleria Nazionale ad aver organizzato la mostra, ma il ministro della cultura ad averla fortemente voluta – un concetto ripetuto così spesso e da così tanti soggetti differenti nei giorni dell’inaugurazione da far immaginare un’indicazione esplicita di dare a questa paternità adeguato rilievo.

La mostra alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea celebra cinquant’anni dalla scomparsa di John Ronald Reuel Tolkien e dalla prima edizione italiana del libro nel quale ha presentato il mondo mitologico del Signore degli Anelli, Lo Hobbit.

Eppure gli indizi c’erano tutti: l’annuncio-anticipazione fatto da Gennaro Sangiuliano in occasione della festa di Gioventù Nazionale, la scorsa estate; la conferenza stampa di presentazione, tenuta nella sede istituzionale del ministero, e non alla Galleria, e gestita direttamente dall’ufficio stampa interno; un curatore esperto tolkeniano, Oronzo Cilli, che non ha colto l’opportunità di coinvolgere le professionalità interne del museo e mettere insieme un team curatoriale che potesse contare anche su quella straordinaria capacità che la Galleria Nazionale ha nel tessere relazioni tra arti, temi e soggetti apparentemente lontani tra loro.

E ancora il progetto di allestimento, la sua realizzazione fisica e la stessa organizzazione generale, quest’ultima affidata a una società esterna – la C.O.R. Creare Organizzare Realizzare – e a una persona di grande esperienza come Alessandro Nicosia, che col realismo cortese da recordman italiano delle mostre, in grado di navigare in mari differenti, rispondendo a una delle prevedibili domande sull’opportunità dell’iniziativa posta da Roberta Benvenuto di Piazza Pulita, spiegava:

Me lo ha chiesto un governo di destra? Chapeau. L’abbiamo votato noi, il governo di destra. (…) Hanno vinto le elezioni. Ci siamo capiti?

Alessandro Nicosia

Hanno vinto le elezioni, e questo renderebbe normale il fatto che un ministro decida quali mostre fare (come se una nomina politica rendesse esperti in curatela), dove farle (come se sedere al vertice portasse nella propria diretta disponibilità spazi e calendari di quelli che dovrebbero essere musei autonomi), con quali budget finanziarle, come promuoverle; e qui devo dar ragione a Montanari, perché tutto ci ricorda davvero più la Corea del Nord che la Repubblica Italiana.

Un momento dell’affollatissima anteprima stampa della mostra alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea

Questo è apparso particolarmente evidente la convulsa mattina del giorno dell’inaugurazione, coi giornalisti e le troupe televisive impegnate a rincorrere il ministro – e solo lui – nel suo passaggio rapido tra le sale, in una scena tra il grottesco e il surreale, senza che si sia tenuta una vera conferenza stampa o una presentazione formale; è arrivato Sangiuliano, sta passando Sangiuliano, riprendi Sangiuliano, fate silenzio che Sangiuliano sta rispondendo a una domanda, mi dispiace non c’è altro tempo per domande a Sangiuliano, Sangiuliano se n’è andato.

Nonostante questo c’è chi chiede Cristiana perché fai questo torto a Palma?, e io non posso non notare quanto chiamare due donne per nome di battesimo, oltre a essere una pessima abitudine, non è una prerogativa esclusiva dei giornalisti maschi.

La data di inaugurazione della mostra – 15 novembre 2023 – con partecipazione annunciata del presidente del consiglio (che in realtà la visiterà solo in forma privata) era stata resa nota con largo anticipo, e ricordo che a suo tempo feci due conti e, calendario alla mano, tirai un sospiro di sollievo: l’incarico di Cristiana Collu sarebbe scaduto ai primi di novembre, e per questa mostra così lontana da tutto ciò che aveva contraddistinto il suo lavoro da direttrice negli ultimi otto anni non sarebbe stata più lei a guidare la Galleria.

Non so sia stato più ottimista o ingenuo, fatto sta che le cose sono andate diversamente: l’esito della selezione per i nuovi direttori dei musei sarà comunicato ben più tardi, a metà dicembre, nonostante il bando fosse stato pubblicato a metà giugno; il tempo non sarà sufficiente per completare le procedure prima della scadenza dei mandati in corso e per diversi istituti si dovrà procedere alla nomina di direttori ad interim, o alla proroga dell’incarico di quelli uscenti.
Nel caso della Galleria Nazionale, Collu, che essendo già al secondo mandato non aveva potuto ricandidarsi per il museo di Valle Giulia (l’ha fatto, invece, per altre destinazioni) rimarrà alla guida del museo fino al 18 dicembre, con quello che nel messaggio di commiato definirà, facendo eco a Time is out of joint, un fuori sesto di 45 giorni. L’apertura di Tolkien, almeno dal punto di vista formale, è quindi toccata a lei.

Tra i primi oggetti del percorso di visita, e forse quello di dimensioni più grandi preso singolarmente, il baule usato dalla madre dello scrittore, Mabel, per il viaggio di ritorno dal Sudafrica: Esposto su un basamento sottile, è oggi mortificato da quattro colonnine tendinastro aggiunte nelle settimane successive all’inaugurazione

In modo un po’ paradossale (ma non sorprendente), questo ci ha portato la parte migliore del progetto: quell’indirizzo di saluto che Collu – che a dire il vero riuscirebbe a stupirci anche se le chiedessimo di scrivere dei gusci delle uova che abbiamo appena rotto per preparare una frittata – ha preparato per la presentazione della mostra. Carabelli su InsideArt l’ha definito una grandissima bugia vestita bene; io l’ho trovato una dimostrazione del fatto che la direttrice ha esercitato il suo ruolo come servizio alla comunità, e questo comprende un rispetto delle istituzioni che prescinde dalle qualità individuali di chi le rappresenta.

Cristiana Collu avrebbe dovuto ribellarsi? Personalmente non credo avrebbe potuto, ma se anche lo avesse fatto la mostra fortemente voluta non si sarebbe certo fermata per la contrarietà di un direttore ormai a fine mandato. Non a caso, nelle polemiche che ne hanno preceduto l’inaugurazione, più di qualcuno ha parlato esplicitamente di mostra imposta alla Galleria.

Questa è forse la parte più importante di tutta la questione Tolkien, ben più delle discussioni sull’opportunità di dedicargli un progetto espositivo (può uno scrittore esserne il soggetto? certo che può): quella che celebra i cinquant’anni dalla scomparsa dell’uomo-professore-autore, prima che una mostra, è un’occupazione.

Il totem e lo stendardo per Tolkien. Uomo, Professore, Autore che accolgono il visitatore alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea

Alla vigilia delle elezioni del 2022 Gennaro Sangiuliano era ancora direttore del Tg2 quando chiedeva, tradendo un filo di emozione, se la possibilità di essere il primo presidente del consiglio donna della storia repubblicana fosse un riscatto per tutte le donne italiane; Meloni – che non era ancora l‘uomo dell’anno – spiegava che sarebbe stato un riscatto per un sacco di gente che in questa Nazione ha dovuto per decenni abbassare la testa.
A dar forma a questo riscatto sul piano della politica culturale penserà proprio quel direttore di telegiornale, e questa mostra fortemente voluta rappresenta uno dei punti più significativi del suo operato da ministro: Sangiuliano l’ha plasmata come un Atreju in versione Gran Gala, un affollato corso di formazione politica permanente (la mostra sarà itinerante) per simpatizzanti, elettori e militanti, un’occupazione simbolica, che rende visibile l’avvenuta presa di possesso di un’istituzione – la Galleria Nazionale – che più di ogni altro museo italiano potrà essere lo strumento per ridisegnare l’identità culturale della Nazione. Un’occupazione che dimostra che chi ha vinto può fare ciò che vuole, pronto a rivendicare la scelta prima e a sostenerne l’opportunità poi, numeri dei visitatori alla mano, la migliore risposta ai maestrini col ditino alzato.

La bellissima mostra su Tolkien promossa dal Ministero della Cultura è un omaggio alla ricchezza delle idee, alla fantasia e alla capacità di ispirare generazioni. E stupiscono le polemiche dei soliti noti sull’organizzazione della più grande mostra mai dedicata in Italia all’autore di uno dei libri più venduti e amati della storia della letteratura. Dimostra il nervosismo di chi ha pensato che la cultura gli appartenesse, che potesse essere appannaggio di una parte politica e non di tutti. Quel tempo è finito.

Giorgia Meloni su TikTok

Se il giornalismo italiano non fosse moribondo, al ministro che esulta per i numeri nei primi 26 giorni di apertura, 28.045 ingressi contro i 20.317 dell’anno precedente, qualcuno farebbe notare che negli otto anni di direzione di Cristiana Collu i visitatori non sono solo aumentati, ma raddoppiati, passando a 132.315 a 260.000, uno dei tanti successi illustrati nel Report 2015–2023 sull’attività del museo.

La mostra su Tolkien, oltre che una presa di possesso simbolica, è però anche un’occupazione fisica della Galleria Nazionale – o della GNAM, come ormai sembra che tutti tornino a chiamarla, un recupero della vecchia denominazione che più che una distrazione sembra un’intenzione programmatica.

“Scusi, sa se c’è per caso una mostra su Tolkien?”

Che si tratti di una mostra differente dalle 88 organizzate in questi ultimi 8 anni lo si intuisce anche a centinaia di km di distanza da Roma, in uno qualsiasi dei tanti luoghi in cui una campagna pubblicitaria senza precedenti ne ha portato l’immagine; ma al continuo insistere sui numeri dei visitatori come controprova di qualità – come se un progetto espositivo fosse un plebiscito o un referendum costituzionale – nessuno ha pensato di replicare chiedendo conto di altri numeri, quelli del budget previsto per la comunicazione.

Se non ricordo male, la Galleria Nazionale non faceva una campagna pubblicitaria dai tempi del Museum Beauty Contest del 2017, e non so da quanto tempo lo stendardo di una mostra in corso mancasse dalla facciata di Valle Giulia. Ma quella su Tolkien è un’altra cosa, e sembra tenere molto a sottolinearlo.

Una volta entrati in Galleria le cose che ci ricordano il suo carattere differente continuano: una serie di totem verticali davvero impossibili da non vedere indicano al visitatore il percorso per raggiungere le sale in cui è allestita l’esposizione, e sembrano volergli dire di non farsi distrarre da Van Gogh, Gauguin o Burri: Tolkien è di qua, giù in fondo, questo è il cammino.
In quegli stessi spazi – le sale che si affacciano su Via Gramsci – fino a dieci giorni prima avreste trovato Picasso Metamorfico, ma senza bisogno di segnaletica.

Quella di Tolkien è un’occupazione anche perché sceglie di ignorare totalmente la natura della Galleria Nazionale, il suo essere un contenitore aperto e fluido che ognuno può percorrere seguendo il proprio itinerario personale, che sia quello costruito con l’esperienza delle visite ripetute o quello istintivo della prima scoperta.
Chi ha prodotto questa mostra ha scelto di prescindere da questa caratteristica preziosa – qualcuno direbbe identitaria – o forse non l’ha neppure capita – così come non ha compreso la relazione speciale che intercorre tra lo spazio per le esposizioni temporanee che la ospita e il resto del museo.

Esiste infatti un asse privilegiato che percorre l’edificio progettato da Cesare Bazzani in tutta la sua larghezza: parte dalla piccola sala in cui sono esposti i Vespri Siciliani di Hayez, supera le sculture di Moore e Giacometti, passa davanti al Salone Centrale e al suo cortile superando il dislivello che separa il nucleo originale del Palazzo delle Belle Arti dal suo ampliamento del 1933; torna alla quota superiore, incontra i bachi da setola di Pascali e la fontana di Duchamp, e raggiunge senza soluzione di continuità l’ala di Via Gramsci.
Al termine di questo canocchiale, scandito dalla sequenza di portali che si susseguono man mano che si attraversano le sale, si trova un punto focale fondamentale; per anni quel luogo è stato allestito in modo da costituire il legame tra l’esposizione temporanea in corso e il resto del museo, utilizzando un’opera significativa visibile anche a grande distanza che la introducesse a tutti e si costituisse come un segnale implicito che rendeva inutile il ricorso a totem banali e decontestualizzati.

L’allestimento della mostra Tolkien. Uomo, Professore, Autore sceglie di non stabilire alcun legame con il resto degli spazi della Galleria Nazionale, ignorandone le caratteristiche peculiari e proponendo un approccio totalmente introverso.

Nell’allestire la mostra su Tolkien le potenzialità di quel luogo e di quella parete così speciali sono state totalmente ignorate, e in questo modo di (non) porsi in relazione c’è quasi un senso di prevaricazione. Come se fossero interessati solo a ciò che accade all’interno della mostra, gli organizzatori hanno scelto di ignorare tutto ciò che si trova al suo esterno, mortificandolo; o forse lo hanno mal sopportato, perché il confronto con la qualità del resto della Galleria, va detto, è impietoso.

Quella che è stata presentata come la più grande mostra mai realizzata su John Ronald Reuel Tolkien può infatti giocare diversi assi e soddisfare emozionalmente gli appassionati, ma presenta anche dei limiti importanti sia dal punto di vista dell’impostazione che da quello dell’esecuzione.

Primo fra tutti c’è quello di essere un’esposizione su uno scrittore che è piena di scrittura: l’apparato informativo previsto dai curatori travalica ampiamente la soglia di attenzione del più tenace tra gli studiosi, e non si è pensato a una gerarchia tra testi fondamentali e di approfondimento, passando direttamente dalla grande dimensione dei titoli delle sezioni principali a quella minuta dei testi estesi, così densi da mettere alla prova anche i più volenterosi.

Una mostra su uno scrittore che è piena di scrittura


Questa ipertrofia tipografica non è affiancata da un apparato iconografico altrettanto forte che possa controbilanciarla e rendere l’esperienza di visita più equilibrata, e questo costituisce il secondo limite della mostra. Gli oggetti e i reperti esposti sono numerosi e preziosi, ma libri, taccuini, pergamene, foto d’epoca, per loro stessa natura, sono minuti in scala e poco d’impatto, se presi singolarmente.

Le cose non migliorano molto quando passiamo dagli oggetti personali o da rare prime edizioni a materiali con un potenziale iconografico intrinseco più forte, come disegni, stampe, studi per personaggi o artwork poi utilizzati per le copertine dei libri: anch’essi sono di dimensioni contenute se presi individualmente e non riescono a costituire una massa critica se osservati tutti insieme.

Si è tentato di amplificare la potenza visiva di alcuni elementi (non necessariamente i più significativi), predisponendo delle riproduzioni ingrandite su pannelli retroilluminati; è un’intuizione che avrebbe potuto funzionare, se il risultato finale non risultasse troppo spesso casuale (i pannelli non corrispondono alla divisione in sezioni del percorso espositivo, mentre avrebbero potuto scandirlo, migliorandone la comprensione), e se la sua realizzazione tecnica non fosse compromessa da una diffusione non uniforme della luce, che risulta troppo concentrata sulla cornice perimetrale dei pannelli a causa di una progettazione non adeguatamente controllata.

L’invenzione forse più riuscita – la grande libreria a C con le edizioni delle opere tolkeniane tradotte nelle lingue di tutto il mondo – soffre anch’essa di un’esecuzione poco felice, con le lastre di plexiglass per proteggere i volumi che finiscono per renderli poco visibili a causa dei numerosi riflessi, e un progetto di luce non che per questo elemento fondamentale dell’allestimento si affida unicamente alla luce ambientale invece di prevedere apparecchi dedicati.

La sala che la ospita è quella centrale ed è di gran lunga la più ampia dell’esposizione, ma finisce per risultare vuota, come se attendesse qualcosa che però non accade, nonostante il tentativo di riempirla con contenuti multimediali (ma non interattivi).

Centinaia di edizioni in lingue differenti delle opere tolkieniane raccolte insieme costituiscono la pièce de résistance del progetto allestitivo; nonostante l’ottima intuizione sia penalizzata da gravi errori di esecuzione, qualcuno l’ha definita “vera installazione d’arte contemporanea”.

Lo stesso percorso di visita è forzatamente complesso, con una densità di colonnine tendinastro che ricorda più la fatica della coda all’imbarco di un volo low cost che il respiro delle sale di un museo; i passaggi tra i vari ambienti, tutti obbligati e a senso unico, sono gestiti con soluzioni a volte ostili; in quelle situazioni in cui il visitatore dovrebbe essere orientato (perché non è facile intuire da soli che per arrivare a una sala che si intravede attraverso una porta a vetri sia necessario salire una scala, raggiungere il soppalco e scendere per la scala gemella dal lato opposto), l’impianto espositivo sembra solo preoccuparsi di impedirgli di intraprendere itinerari diversi da quello predefinito, aspetto questo che stride particolarmente se confrontato con la libertà di circolazione nel resto della Galleria.

La mostra, a suo modo, è anche bulimica, e ha richiesto uno spazio maggiore di quello abitualmente destinato alle esposizioni temporanee, tracimando in una delle sale che abitualmente ospitano la collezione permanente.
Una cosa simile accade già col bookshop della Galleria (la mostra non ne ha uno proprio, e sarebbe stato intelligente prevederlo, allestito in coda al percorso di visita, perché quello del museo si trova molto distante, accanto alla biglietteria): i suoi scaffali sono invasi non solo dal catalogo e da varie edizioni delle opere di Tolkien ma anche da molti oggetti di merchandise e figures da collezione.

Ma se doveste cercare il mobile di Alexander Calder nel settore 04 del museo sappiate che non lo troverete più: le opere abitualmente esposte in quella sala sono tornate nei depositi per lasciare spazio alla sezione della mostra dedicata alla fortuna pop di Tolkien, voluta a fine percorso, o forse aggiunta in corso d’opera, rendendo necessario procurarsi ulteriore spazio, a scapito della collezione del museo.

Nella sala dedicata alla fortuna pop di J.J.R. Tolkien, un grande schermo propone a ciclo continuo le immagini della saga cinematografica diretta da Peter Jackson; la visione è resa però praticamente impossibile dalla posizione dello schermo, che finisce solo per riflettere la geometria del lucernario sovrastante.

Si tratta di una sala pensata per alleggerire l’esperienza di visita, spiegano i curatori, che fino a quel punto si era sviluppata con un impianto non sempre entusiasmante ma certamente solido: ecco comparire le locandine dei film, le riproduzioni dei costumi (che non essendo originali perdono però gran parte del possibile interesse), i plastici e le miniature, i giochi da tavolo, i fumetti, i videogames, le copertine dei dischi, un flipper, una scultura della quale non saprei cosa scrivere, e persino un toccante omaggio a Pino Insegno, la voce del Re.

Se guardate oltre, a percorso ormai completato, potrete intravedere una scultura di Anish Kapoor, Untitled nero africano, accanto alla Cerere di Antonio Solà, mentre una tenda bianca impedirà la contaminazione con l’Hammer and sickle di Andy Warhol – Tolkien in fondo era antifascista ma anche anticomunista; queste opere, viste da dentro la mostra appariranno fuori posto ad alcuni almeno quanto ciò che è all’interno appare estraneo, da fuori, ad altri.

In questo involontario punto di contatto tra Tolkien. Uomo, Professore, Autore e Time is out of joint – che ricorda Grenen, il luogo dove le acque del Mare del Nord incontrano quelle del Mar Baltico senza mescolarsi mai – c’è quella che, alla fine, è un po’ la caratteristica peculiare di questa mostra alla Galleria Nazionale: quella di essere dentro la Galleria Nazionale, e di non poter quindi prescindere dalla forza della sua identità.

Senza un ingresso separato e con un unico biglietto – a Valle Giulia è sempre così, ma per qualche ragione si è voluto sottolineare il fatto che stavolta la visita sia possibile senza alcun costo aggiuntivo grazie al MiCTolkien. Uomo, Professore, Autore può apparire come una imposizione al visitatore abituale della Galleria: io stesso, che per il museo ho sviluppato una sorta di dipendenza, confesso di averla saltata almeno un paio di volte; ma allo stesso tempo doverla attraversare quasi per intero per arrivare agli spazi che ospitano la mostra finisce per essere una imposizione gentile per chi è entrato solo per Tolkien, magari per la prima volta, e finisce invece per scoprire quanto è bella la Galleria Nazionale.

E questa, alla fine, è una vittoria – forse l’ultima – di Time is out of joint.

  • Tolkien. Uomo, Professore, Autore
    Ideata e promossa dal Ministero della Cultura con la collaborazione dell’Università di Oxford, a cura di Oronzo Cilli e Alessandro Nicosia
    Progetto di allestimento: BC Progetti

Dal 16.11.2023 all’11.02.2024 alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea
Viale delle Belle Arti 131, 00197 Roma
Dal martedì alla domenica dalle 9 alle 19, ultimo ingresso 45 minuti prima della chiusura.

La Galleria garantisce un’accessibilità totale alle persone con disabilità grazie all’ausilio di ascensori, pedane elevatrici e servizi adeguati.
Sono a disposizione del pubblico due carrozzine anche per uso in autonomia.

Foto: Paolo Olivi @PaoloFM. Per gentile concessione del Ministero della Cultura e della Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea.