L’Extra MAXXI è uno spazio espositivo del Museo per le Arti del XXI Secolo di Roma situato al primo piano di un edificio recuperato dell’ex caserma Montello, sul lato est di Piazza Alighiero Boetti.
Pur essendo compreso nell’impianto originale di Zaha Hadid, l’edificio è stato ristrutturato secondo un progetto differente, sviluppato in house dagli uffici della Fondazione. Oltre ai 500 mq dell’Extra MAXXI, il corpo ospita il ristorante, gli uffici, la biblioteca, una sala polifunzionale intitolata alla collezionista d’arte e mecenate Graziella Lonardi Buontempo e un altro piccolo spazio espositivo a piano terra, il Corner MAXXI.

L’edificio della ex-caserma Montello che ospita l’Extra MAXXI, sul lato est della Piazza Alighiero Boetti

Per la sua natura, separato fisicamente dall’edificio del museo, l’Extra MAXXI si presta a ospitare mostre alle quali si accede con un biglietto dedicato.
È questo anche il caso di Gianni Berengo Gardin. L’occhio come mestiere, a cura di Margherita Guccione e Alessandra Mauro, inaugurata lo scorso 4 maggio e prodotta in collaborazione con Contrasto, casa editrice specializzata nel settore della fotografia e impegnata nell’organizzazione di mostre nei più importanti spazi espositivi italiani.

L’occhio come mestiere è la seconda mostra a bigliettazione separata a tenersi al MAXXI in questo periodo, oltre a Sebastião Salgado. Amazônia, che è però ospitata nella Galleria 4, nel cuore del museo. La compresenza delle mostre è verosimilmente non ricercata: quella di Salgado era originariamente programmata per concludersi il 13 febbraio scorso, ma un grande successo di pubblico ha portato a estenderne più volte la durata, ora fino al prossimo 21 agosto.

Il corpo principale del MAXXI, progettato da Zaha Hadid e Patrik Schumacher, visto dall’interno dell’Extra MAXXI

È nata così la fortunata coincidenza di avere Berengo Gardin e Salgado – due dei più grandi nomi della fotografia mondiale – in mostra a poche decine di metri l’uno dall’altro; l’occasione è resa poi ancora più unica dalla compresenza di una terza mostra – Tokyo Revisited – che presenta il lavoro del fotografo giapponese Daido Moriyama con il suo maestro Shomei Tomatsu.

Il rovescio della medaglia è il fatto che se è relativamente semplice spiegare che per visitare una mostra che si svolge in un edificio separato occorre un biglietto dedicato, diventa più complesso guidare il pubblico nell’acquisto di tutti e tre i titoli d’ingresso differenti necessari per accedere a tutto ciò che il MAXXI offre in questo momento, anche all’interno del medesimo edificio.

In ogni caso, i sette euro del biglietto d’ingresso (o qualcosa in meno, se lo acquistate insieme a quello per accedere al museo) sono il migliore investimento che possiate fare in questa primavera se avete intenzione di visitare una mostra a pagamento a Roma: L’occhio come mestiere è un’esperienza straordinaria.

Il titolo riprende quello del libro curato dall’amico Cesare Colombo nel 1970 – L’occhio come mestiere – un’antologia di immagini del maestro a cui la mostra rende omaggio nel percorso espositivo.

In oltre sessant’anni di osservazioni Gianni Berengo Gardin ha raccontato per immagini l’Italia dal dopoguerra ai giorni d’oggi, costruendo un patrimonio visivo caratterizzato dalla coerenza nelle scelte linguistiche – prime tra tutte il bianco e nero, l’uso della pellicola e l’astensione da ogni tipo di post-produzione – e frutto di un approccio artigianale alla pratica fotografica.

In mostra al MAXXI sono raccolte oltre 150 delle sue fotografie, tra scatti celebri, immagini meno note e altre completamente inedite.

Gianni Berengo Gardin. L’occhio come mestiere – Vista dell’allestimento

Il maestro ha scelto di mostrare per la prima volta qui al MAXXI alcune fotografie inedite, e lo ringrazio moltissimo anche per questo. Il suo sguardo ha attraversato l’Italia e l’ha raccontata nelle sue dinamiche sociali, nel mondo del lavoro, della cultura. Le sue immagini “vere” sono meravigliose, con l’uso del bianco e nero, con il gioco delle ombre. Raccontano l’uomo nella sua dimensione sociale, hanno un forte valore insieme poetico e politico e sono straordinariamente contemporanee.

Giovanna Melandri, Presidente della FONDAZIONE MAXXI

La contemporaneità dell’occhio di Berengo Gardin è uno degli aspetti più impressionanti della mostra. Il suo è uno sguardo sempre incredibilmente moderno, indipendentemente dal fatto che stiamo osservando una sua fotografia dei portici di Piazza San Marco del 1959 o quella di un ragazzo che gioca a calcio in strada a Taranto nel 2008.

Non è certamente un caso che il punto di partenza e quello di arrivo della mostra – il percorso di visita non ha un verso predefinito né segue un criterio cronologico – sia Venezia, che per Berengo Gardin è città d’elezione al punto di essergli quasi sovrapponibile.

Pur non essendo nato a Venezia, mi sento veneziano perché i nonni erano veneziani, i bisnonni veneziani, papà venezianissimo e io, fin da bambino, pur abitando a Roma, a due, tre anni andavo in vacanza dai nonni che avevano la casa in piazza San Marco. Dal terrazzo vedevo piazza San Marco, sono stato quindi educato al bello da sempre. Quando ho cominciato a fare fotografia collaboravo con i giornali di aviazione perché ero esperto di aerei. Poi, un po’ alla volta, anche perché vedevo le foto del Circolo Fotografico La Gondola che era vicino al negozio di famiglia, ho iniziato a fare altri tipi di fotografia.

Gianni Berengo Gardin, in conversazione con Margherita Guccione

L’impressione è che l’architetta Benedetta Marinucci abbia progettato l’allestimento immaginando la mostra proprio come un lento viaggio in gondola attraverso un rio veneziano, un passaggio sinuoso che lascia intravedere ciò che sta per arrivare attraverso dei tagli tra i pannelli in corrispondenza di alcuni punti di piegatura, proprio come succede nella città lagunare, dove a volte si traguarda in anticipo ciò che si raggiungerà solo molto tempo dopo.

Gianni Berengo Gardin. L’occhio come mestiere – Viste dell’allestimento

L’uso del colore è discreto e riuscito, e non cede alla facile tentazione di accostare al bianco e nero delle immagini fotografiche un solo colore forte, per contrasto, o la sua totale assenza, usando il bianco, il nero o la scala dei grigi. La lunga sequenza delle pareti espositive è in color sabbia, la struttura che le raccorda e sostiene è in un rosso lacca che ricorda le paline veneziane. A metà del viaggio, un grande telaio a parete raccoglie, come una gigantesca libreria, le oltre 250 pubblicazioni realizzate da Gianni Berengo Gardin nel corso della sua lunga carriera.

Un percorso che si dipana immagine dopo immagine, attento a fermare grandi momenti e situazioni di una semplice, splendida normalità; personaggi celebri della vita culturale, reportage dirompenti, paesaggi che speriamo non cambino mai.
Seguiamolo e ricostruiamo così anche il percorso del suo sguardo, certi che per chi come lui intende documentare ciò che la società è e ciò che dovrebbe essere, non mancheranno mai nuove occasioni di incontro, nuovi aspetti su cui soffermarsi, nuove visioni su cui esercitare, con giusto metodo, il proprio mestiere.

Alessandra Mauro, Curatrice della mostra

Gianni Berengo Gardin. L’occhio come mestiere – Viste dell’allestimento

Quella fotografata da Berengo Gardin è la Venezia intima delle prime immagini degli anni ’50, ma anche quella vitale della contestazione alla Biennale del 1968 e quella del suo progetto del 2013, incentrato sulle Grandi Navi.
C’è poi Milano, città dell’industria, delle lotte operaie, degli intellettuali ma anche quella dove Berengo Gardin stabilirà il suo studio, luogo di riflessione e elaborazione.
È un viaggio che tocca quasi tutte le regioni italiane dal secondo dopoguerra a oggi, dai borghi rurali alle grandi città, dai luoghi della vita sociale – strade, piazze, caffé, stazioni ferroviarie – a quelli di lavoro, coi reportage realizzati per Alfa Romeo, Fiat, Pirelli e, soprattutto, la collaborazione di 15 anni con Olivetti.

In mostra troviamo anche le immagini scattate da Berengo Gardin negli ospedali psichiatrici e pubblicate nel 1968 in Morire di classe, un libro che darà impulso al movimento d’opinione per la chiusura dei manicomi che porterà alla Legge 180, dieci anni più tardi.
Berengo Gardin ci racconta poi il popolo e la cultura Rom, fotografati con fiducia e curiosità nei momenti intimi e in quelli corali, come feste e cerimonie; L’Aquila ferita dal terremoto; diverse immagini di cantieri, compreso quello del MAXXI, fotografato nel 2007; i suoi molti incontri con figure chiave della cultura contemporanea.

Il cantiere del MAXXI in costruzione (2007)

Molti mi dicono che sono un artista ma non ci tengo a passare per artista, sono un fotografo artigiano naïve, ho una cultura limitatissima e ho lavorato con le mani in camera oscura per cinquant’anni, dalla mattina alla sera.

La composizione mi viene naturale, non la cerco, viene da sola, non mi sento un creativo, non faccio altro che registrare quello che vedo.

Sono profondamente convinto che la fotografia abbia un valore di documento, magari anche di arte, ma prima di tutto deve essere documento. Sono d’accordo con Ferdinando Scianna: siamo “fotografi fotografi”, non siamo fotografi-artisti o artisti fotografici. Poi penso anche che la foto di documentazione sia più importante della cosiddetta foto d’arte, artistica, mostra qualcosa che è importante far vedere, è quello il valore della fotografia, la registrazione della realtà.

Gianni Berengo Gardin, in conversazione con Margherita Guccione

Gianni Berengo Gardin. L’occhio come mestiere – Vista dell’allestimento

La mostra è arricchita da un podcast, il primo di una serie che il MAXXI dedica a fotografi, artisti e architetti presenti nella collezione del museo, pensato come un vero e proprio accompagnamento alla visita. Attivabile attraverso la scansione di un QR code, la traccia audio con la voce di Gianni Berengo Gardin racconta in prima persona aneddoti e ricordi legati alla sua vita personale e professionale.

Per me la fotografia non deve essere costruita, deve essere vera, non per nulla ho fatto il timbro “vera fotografia”. Una foto buona può essere tecnicamente non a posto, ma esprime qualcosa, racconta qualcosa. E il mio vantaggio, come dice Ferdinando Scianna nella prefazione di un mio libro, è che anche nei lavori più professionali che facevo per la grande industria, riuscivo sempre a portare una foto di quelle che piacevano a me, cioè una buona fotografia. Il timbro “vera fotografia” è nato con il digitale, perché ormai digitalmente si falsifica tutto e una foto modificata con il computer non è più una foto, non è quello che ha visto il fotografo, è un’illustrazione. Si danno delle comunicazioni false con l’utilizzo del digitale. Adesso i paesaggi hanno sempre i cieli tempestosi, è il vantaggio del digitale. Fai una foto a mezzanotte con il buio e sembra fatta in piena luce. Quindi io forse sono un po’ esagerato, ma insisto che la vera fotografia è in pellicola.

Gianni Berengo Gardin, in conversazione con Margherita Guccione

  • Gianni Berengo Gardin. L’occhio come mestiere
    A cura di Margherita Guccione e Alessandra Mauro.
    In collaborazione con Contrasto, Fondazione Forma per la Fotografia e Archivio Gianni Berengo Gardin.
    Progetto di allestimento e coordinamento tecnico: Benedetta Marinucci, Claudio Tamburrini.

Dal 4.05 al 18.09.2022 al MAXXI
Via Guido Reni 4A, 00196 Roma
Dal martedì alla domenica dalle 11 alle 19. La biglietteria è aperta fino a un’ora prima della chiusura del museo.

Progetto di allestimento e coordinamento tecnico:
Benedetta Marinucci, Claudio Tamburrini.

Immagini dell’allestimento: Paolo Olivi @PaoloFM. Foto © Gianni Berengo Gardini/Courtesy Fondazione Forma per la Fotografia.