Vuoi ammirare le opere il di Van Gogh a Roma?
È possibile!

È con questa frase nella mente, immaginata come se fosse l’inizio di un reel di uno dei tanti profili social che si occupano di condividere notizie su mostre e arte – quelli bravi direbbero art sharing – che una mattina di ottobre mi sono diretto a Piazza Venezia per la mostra Van Gogh. Capolavori dal Kröller-Müller Museum.

La domanda in realtà avrebbe dovuto essere abbiamo davvero bisogno di un’altra mostra su Vincent Van Gogh? e mi ronzava nella testa da mesi, più precisamente da quando Arthemisia, probabilmente l’azienda del settore più importante a livello nazionale, ha annunciato per il mese di ottobre 2022 l’arrivo della mostra dell’anno negli spazi di Palazzo Bonaparte a Roma, dei quali cura la programmazione artistica per Generali Valore Cultura.


La mia visita è partita quindi con un interrogativo aperto, ma non senza l’intenzione di mantenermi aperto alla sorpresa: per questo partirò col raccontare gli aspetti migliori di questo nuovo progetto.

Partiamo col dire che non si tratta di una mostra The Artist & Friends: non seduce il pubblico con il nome dell’artista di richiamo per poi presentarne solo un manciata di opere, riempiendo le sale con lavori di altri autori a lui in qualche modo correlati: in questa nuova esposizione romana tutte e cinquanta le opere, divise all’incirca a metà tra disegni e dipinti, sono del fragile genio olandese.

Non lasciatevi quindi ingannare dai dipinti di quattro grandi maestri – Cranach il Vecchio, Renoir, Gauguin e Picasso – e dai due ritratti di Eva Callimachi-Catargi e della stessa Helene Kröller-Müller che incontrerete nella prima sala, perché servono da introduzione al percorso di visita e a descriverne il contesto e sono, in un certo senso, un bonus.

Vista dell’allestimento: prima sezione – Helene Kröller-Müller.

Tutte le opere in mostra – e questo è il secondo aspetto positivo – fanno parte di uno stesso prestito, che proviene da quel museo di Otterlo richiamato nel titolo della mostra che è anche l’istituzione che descrive orgogliosamente la propria come la più bella raccolta di Van Gogh del mondo.
Numericamente, la collezione del Kröller-Müller – che secondo la nomenclatura olandese è oggi un Rijksmuseum, un museo statale – è in effetti seconda solo a quella del Van Gogh Museum di Amsterdam.

A Roma è quindi in trasferta un intero brano dell’istituzione culturale olandese, e per molti visitatori l’esposizione avrà proprio il merito di aver fatto conoscere loro un museo straordinario e la storia della sua ideatrice: Helene Kröller-Müller, una delle prime donne a dar vita a una raccolta di arte (a lei) contemporanea, oltre che la prima e più grande collezionista di opere di Van Gogh.

Particolari del ritratto di Helene Kröller-Müller di Floris Verster (1910) e di quello di Eva Callimachi-Catargi di Henri Fantin-Latour (1881), esposti nella prima sezione della mostra.

Costruirò una nuova casa che diventerà un museo e in futuro apparterrà al pubblico, tra cento anni sarà considerato un monumento culturale, una grande lezione che mostrerà quanto si sia evoluta una famiglia di mercanti di inizio del secolo in termini di raffinatezza interiore.
Sarà un museo autentico e vivo come mai nessun altro prima.

Helene Kröller-Müller

A Palazzo Bonaparte il progetto di allestimento e quello illuminotecnico, curati come di consueto dallo studio romano BC Progetti e da Francesco Murano, sono impeccabili. La mostra occupa entrambi i piani dedicati alle esposizioni temporanee di quella che fu la dimora di Letizia Ramolino: accoglienza, biglietteria e guardaroba sono al pianterreno mentre la visita parte dal primo piano e prosegue al secondo.

La scelta tiene probabilmente in conto il fatto che l’afflusso dei visitatori avviene attraverso lo scalone principale, che sarebbe faticoso percorrere tutto d’un fiato sino al livello superiore; di contro partire dal primo piano penalizza chi ha bisogno di utilizzare gli ascensori e sarà costretto a prendere due corse separate per salire prima a un piano, e più tardi al successivo.

Particolari da tre delle cinquanta opere in mostra: Il giardino del manicomio a Saint-Rémy (1889), Tronchi d’albero nell’erba (1890), e Il burrone (Le Peiroulets) (1889).

Per questa mostra l’allestimento rinuncia a ogni rapporto con la luce naturale e agli affacci all’esterno, come era già avvenuto per la videoart di Bill Viola nella passata stagione. La scelta non pregiudica comunque la godibilità delle opere e neppure quella degli spazi, che anzi escono rafforzati da un’illuminazione ambientale ridotta all’essenziale.

Viste dell’allestimento: seconda sezione – il periodo olandese.

Se mancano gli scorci mozzafiato del Vittoriano e di Palazzo Venezia divenuti virali con la mostra delle sculture di Jago, che era decisamente aperta sullo spazio esterno, è comunque possibile affacciarsi al balconcino da cui Madame Letizia amava osservare, protetta dalle persiane, il viavai dei romani tra Piazza Venezia e via del Corso; occorre solo un po’ di attenzione nell’individuarne l’accesso, perché è nascosto nella semi oscurità delle sale.

Vista dell’allestimento: seconda sezione – il periodo olandese.

Tutte le cinquantasei opere sono montate su pannelli, in leggero risalto rispetto alla superficie delle pareti; di queste condividono il colore, che muta dal grigio tortora del periodo olandese all’ottanio di quello francese, riflettendo l’evoluzione dell’arte di Van Gogh, che abbandona i toni terrosi e riscopre la luce quando giunge a Parigi; con la loro dimensione verticale costante, i pannelli servono ad armonizzare tra loro le cornici di quadri e disegni, altrimenti diverse per fogge, materiali e proporzioni.

Il progetto illuminotecnico si concentra sulle singole opere allargando leggermente il fascio luminoso al pannello che le circonda; questo surplus di lumen contribuisce a portare l’illuminazione degli ambienti a un livello adeguato alla circolazione in sicurezza dei visitatori. In questo modo sono direttamente dipinti e disegni a rischiarare la penombra delle sale.

Vista dell’allestimento: seconda sezione – il periodo olandese.

Oltre alla classica targhetta descrittiva, ciascuna opera è coronata da una sorta di intestazione, una grande scritta posizionata in alto che ne riporta autore, titolo e anno. Questa è ben leggibile anche a distanza, cosa particolarmente utile perché con sale molto affollate, come sono quelle di Palazzo Bonaparte in questo avvio di programmazione, avvicinarsi alla targhetta tradizionale – e a volte persino all’opera stessa – risulta difficile se non impossibile.

A non funzionare è invece la dimensione del testo nelle targhette classiche, troppo piccole e posizionate troppo in basso, al punto che è più pratico avvicinare lo smartphone, scattare una foto e leggere poi il tutto sul proprio schermo.

Particolari di altre tre opere in mostra: Fiori in un vaso blu (1887 circa), Natura morta con un piatto di cipolle (1889), e Natura morta con statuetta in gesso (1887).

Il principio ordinatore della mostra, curata a quattro mani da Maria Teresa Benedetti e Francesca Villanti, è rigorosamente cronologico, un criterio che nel caso dell’arte di Van Gogh si rifletterà fedelmente nei luoghi in cui ha vissuto, i temi che ha affrontato, i soggetti che ha ritratto, oltre che nel diverso uso della luce e del colore.

Da una mostra come questa non mi aspettavo un Vincent out of joint, ma in ogni caso il racconto, suddiviso in cinque sezioni precedute da una sala di orientamento dove il Napoleone canoviano pare sorvegliare la video-introduzione, funziona bene per tutte le tipologie di visitatori.

Nel travagliato percorso di Vincent esperienza di vita ed esperienza artistica sono inscindibili fino al drammatico epilogo.

Maria Teresa Benedetti, curatrice

Vista dell’allestimento: terza sezione – Parigi, e, al secondo piano, quarta sezione – Arles.

In aggiunta alle descrizioni delle singole opere sono presenti pannelli di sala che introducono i vari temi o approfondiscono specifici argomenti; i testi sono tutti in italiano e inglese. Non mancano un grande tabellone con la timeline della vita dell’artista accostata alla mappa dei suoi luoghi e materiali interattivi che portano il visitatore a familiarizzare con la tecnica di Van Gogh; ad un video è affidata la ricostruzione del rapporto con Paul Gauguin.

In corrispondenza di alcune delle finestre esterne, delle animazioni riproducono i testi tradotti di alcune delle lettere scritte al fratello Theo e a altri amici.

Un QR code consente di scaricare sul proprio smartphone un’audio guida per adulti di circa 50 minuti e una pensata per i bambini della durata di mezz’ora, quindi ricordate di portare con voi gli auricolari.

Vero coup de coeur tra le opere in mostra, forse ancor più dell’iconico autoritratto scelto come immagine simbolo del progetto, è il ritratto del sottotenente Milliet, dipinto da ad Arles a cavallo tra il settembre e l’ottobre del 1888.

Van Gogh ammirava l’amico e la sua disinvoltura nel rapporto con le donne, e lo raffigura come prototipo de L’Amante; di contro Paul-Eugène, che amava osservare Vincent dipingere e che da lui aveva anche preso alcune lezioni, non ne condivideva lo stile così personale. Una sintesi concisa e efficace dell’amicizia tra Milliet e Van Gogh e delle loro incomprensioni è contenuta in una frase scritta in una lettera al fratello:

Milliet è fortunato, ha tutte le Arlésienne che vuole, ma ecco, non è capace a dipingerle, e se fosse un pittore non ne avrebbe nessuna.

Lettera al fratello Theo, Arles, 24 settembre 1888


Dopo aver visitato la mostra più volte, una prima coi soli addetti ai lavori e altre con le sale piene di pubblico, continuo a non trovare una risposta definitiva alla mia domanda iniziale. So però che vedere un’opera di Van Gogh da vicino è sempre un’emozione.

In Italia poi le occasioni per farlo sono davvero poche, e non a caso la mostra mi ha fatto venire voglia di tornare a vedere le tre presenti a Roma in musei aperti al pubblico: la Pietà, ai Musei Vaticani, e l’Arlesiana e il Giardiniere, quando dal loro tour cinese rientreranno nelle sale della Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea.

Curiosamente, quando nel 1988 fu proprio la GNAM ad ospitare una grande retrospettiva su Van Gogh, questa venne presentata come l’evento dell’anno, quasi le stesse parole usate oggi da Arthemisia per la mostra a Palazzo Bonaparte.


Del carattere universale di Van Gogh gli organizzatori della mostra sono ben consapevoli, e non a caso hanno chiesto al bravo Costantino D’Orazio di curare una sezione dedicata alla Van Gogh Mania.

La sublimazione pop delle opere di Van Gogh – e non di rado dello stesso artista – viene raccontata attraverso quattro schermi assemblati in orizzontale sulla parete di fondo del bookshop.

La replicazione declinata in una serie infinita di d’après è una sorta di legittimazione culturale per l’overdose di merchandise che la circonda, ma non senza una certa ironia l’esuberanza di quest’ultimo finisce per fagocitarla, rendendo impossibile al pubblico distinguere tra omaggio artistico e oggetto in vendita.


Alcune delle immagini raccolte da Costantino D’Orazio per raccontare la Van Gogh Mania si confondono con gli oggetti in vendita nell’esuberante bookshop.


Questo carattere pop è anche uno dei limiti di questo progetto: Van Gogh, che ha finito per diventare l’equivalente al maschile di Frida Kahlo, non è però una figura eterea come può ad esempio essere una Monna Lisa; Vincent e Frida condividono con la Gioconda la fama e la riconoscibilità, ma la leggerezza – e spesso la superficialità – con cui le loro immagini continuano a essere replicate in ogni modo e su ogni supporto come un vero e proprio brand stride con le loro storie personali, che sono invece intrecciate a doppio filo con la sofferenza a il dolore.

L’allestimento della mostra fa da sponda in più momenti a questa natura iconica. Sono pop, per esempio, i bassi elementi circolari posizionati in due delle sale, su cui vengono proiettate immagini elaborate a partire dai dipinti; quello che non mi aspettavo era vederli utilizzati, più che come sedute, come superfici su cui sdraiarsi per momenti di selfie opportunity alla luce delle pennellate di Van Gogh.

Non manca neppure una sala immersiva – La Notte Stellata – un ambiente interamente rivestito di specchi, com’è tradizione negli allestimenti più recenti di BC Progetti, e costellato di elementi circolari posti a mezz’aria. Su di essi è proiettata una video installazione creata da Art Media Studio a partire da alcuni dei più celebri tra i quadri di Van Gogh; la proiezione diventa così anche un modo smaliziato per incorporare nella mostra quella parte universalmente conosciuta del repertorio iconografico dell’artista che altrimenti risulterebbe mancante, perché riferita a opere custodite da altre istituzioni museali o comunque non facenti parte di questo prestito.

L’idea al principio seduce – tanto che ti ritrovi a estrarre lo smartphone dalla tasca come preso da un riflesso pavloviano – ma a mente fredda ti fa domandare: ma che senso ha?

Questa volta la risposta è semplice e si trova direttamente sul pannello di sala: condividi la tua esperienza, posta la tua fotografia con l’hashtag dedicato e sarà pubblicata sui social della mostra. In realtà la call to action non è neanche necessaria, perché i visitatori seguono da soli il richiamo del selfie come se fosse il Pifferaio di Hamelin.

Non credo di esagerare nel dire che entrare nel gioco della sala immersiva è come sparare un secondo colpo di pistola al Van Gogh in punto di morte.
I riferimenti visivi utilizzati – cieli stellati, iris, campi, girasoli – sono perfettamente riconoscibili, ma le immagini animate, forse per questioni di copyright, sono ricostruzioni digitali fredde, infedeli, e molto poco rispettose delle opere che cercano di emulare, funzionali solo a innescare nel pubblico quei comportamenti che assicureranno il successo anche social della mostra, rendendola virale.
Tutto questo con Vincent Van Gogh c’entra davvero poco, e con la tecnologia si sarebbe potuto fare dell’altro, e di meglio.


Due degli ambienti della mostra sono poi interamente dedicati a singole opere particolarmente significative.
Al primo piano l’Autoritratto del 1887, alla sua prima uscita pubblica dopo il restauro, è trattato come una reliquia, con un allestimento che ne fa volare la cornice nel vuoto e lo lascia dialogare con le decorazioni originali del Palazzo. Affascinante, ma per un uomo con l’umiltà di Van Gogh davvero un po’ troppo. I visitatori sfilano davanti al dipinto, che è peraltro un semplice cartone che Vincent decise di non firmare, e gli girano intorno, ipnotizzati come i primati di Stanley Kubrick alle prese col monolite in 2001: Odissea nello Spazio. E come quei primati, litigano tra loro, cercando di conquistare la posizione migliore per la foto di rito.


Al secondo piano è invece il Vecchio disperato (Alle porte dell’eternità) ad accompagnare il momento più intenso della mostra, quello del racconto della morte dell’artista a Auvers-sur-Oise, a soli 37 anni. A raccontarci i drammatici eventi di domenica 27 luglio 1890 non è un pannello di sala ma una voce narrante che ci permette di mantenere la concentrazione sul quadro, dipinto da Van Gogh appena due mesi prima di togliersi la vita.

Questa atmosfera è però bruscamente interrotta, perché subito dopo il visitatore si trova catapultato nel bookshop, che per questa mostra non si trova nel gazebo al piano terra ma è così grande da occupare per intero l’ultima delle sale; il passaggio è così repentino che sembra di trovarsi all’uscita di una dark ride in un parco a tema disneyano.


Credo si possa concludere serenamente che no, questa non è la mostra dell’anno, nonostante le strade di Roma, in questi giorni letteralmente ricoperte dall’immagine della locandina, si ostinino a ribadire il contrario. E una delle ragioni è proprio che, anche senza essere la solita mostra su Van Gogh, è comunque un’altra mostra su Van Gogh, e sono convinto che una mostra dell’anno, nel 2022, abbia il dovere di essere qualcos’altro.

Dettagli da Contadini che piantano patate (1884), La collina di Montmartre (1886), Interno di un ristorante (1887) e Il seminatore (1888 circa).


È però altrettanto facile immaginare che, proprio per le medesime ragioni (e a giudicare da quanto sono affollate le sale), questa è destinata a essere una delle mostre di maggior successo dell’anno.

Qui è dove occorrerebbe affrontare il tema dell’opportunità di continuare a produrre mostre blockbuster, ma lascerei il compito a chi, molto meglio di me, di questo si occupa da anni.

Mi limito a osservare che la disponibilità economica del pubblico pagante non è illimitata (e lo è ancor meno, in questo periodo difficile), e che se deciderò di spendere 19,50 € per l’ingresso a una mostra, probabilmente rinuncerò a visitarne altre. Non è neppure detto che assecondare la propria fear of missing out sia una buona idea, e questo è un po’ il rischio che si corre quando di una mostra si continua a ripetere che è imperdibile.


Paesaggio con covoni e luna nascente (particolare, 1889).

Bisogna arrivare al punto che i miei quadri valgano ciò che spendo e lo superino, dopo tante spese già sostenute. Ebbene, ci arriveremo. Certo, non tutto mi riesce, ma il lavoro va avanti.

Lettera a Theo, Arles, 9 aprile 1888

Attraversare quel bookshop alla fine della mostra, passando per un ambiente che per il visitatore è anche fisicamente impossibile evitare a meno di ripercorrere tutte le sale a ritroso, è un po’ la sintesi di tutto: più che celebrare un indiscusso ma pur sempre discutibile carattere pop della figura di Van Gogh, ne evidenzia senza finti pudori lo sfruttamento commerciale, e questo finisce per sovrascrivere sia la bella esperienza di visita appena conclusa che l’ottimo lavoro curatoriale che l’ha resa possibile.

You want thingamabobs? I’ve got twenty!, e come se fossimo in fondo al mar con la Sirenetta spuntano ovunque spille, orecchini, foulard, cravatte, magneti, calzini, tote bag, mug, foderi per occhiali, segnalibri, t-shirt, ombrelli, matite, gomme per cancellare, tutto in vendita e tutto a marchio Vincent; se volete ci sono anche già le decorazioni per l’albero di Natale, o più banalmente stampe, poster e cartoline: c’è davvero troppo di tutto (e viene data troppo poca evidenza ai libri). Quasi incidentalmente, tra whozits and whatzits galore troviamo anche il catalogo: è ben realizzato, Skira è una garanzia.

Ecco, mentre ho continuato a chiedermi se avessimo davvero bisogno di un’altra mostra su Vincent Van Gogh, ho capito che mi sarei risparmiato volentieri il Van Gogh Store.


Natura morta con cappello di paglia (particolare, 1881).

E ancora una volta ti dico: o chiudetemi del tutto in una cella di matti e io non mi opporrò nell’eventualità che abbia sbagliato, oppure lasciatemi lavorare con tutte le mie forze, pur prendendo le precauzioni di cui parlo.

Lettera al fratello Theo, Arles, 28 gennaio 1889


La firma di Vincent nell’angolo in basso a destra nel Giardino del manicomio a Saint-Rémy (1889).

  • Van Gogh. Capolavori dal Kröller-Müller Museum.
    A cura di Maria Teresa Benedetti e Francesca Villanti
    Dall’8.10.2022 al 26.03.2023

Palazzo Bonaparte, Piazza Venezia 5, 00186 Roma
Dal lunedì al venerdì dalle 9 alle 19, sabato e domenica fino alle 21.
La biglietteria chiude un’ora prima.


Progetto di allestimento Alessandro Baldoni e Giuseppe Catania con Francesca Romana Mazzoni – BC Progetti
Progetto illuminotecnico Francesco Murano
Progetto grafico e immagine coordinata Angela Scatigna

Fotografie di Paolo Olivi, Pop’s The Matter.
Tutte le opere in mostra © Kröller-Müller Museum, Otterlo, The Netherlands
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